I compensi degli amministratori delle società di capitali devono essere fissati con una specifica delibera assembleare che li quantifichi. Non è sufficiente la delibera che approva il bilancio in cui tali compensi figurano.
In sostanza, gli amministratori non possono fissare il proprio compenso autonomamente e farselo successivamente “ratificare” dall’assemblea.
L’assemblea che approva il bilancio può determinare il compenso degli amministratori solo se viene convocata esclusivamente per l’approvazione del bilancio, senza altri punti all’ordine del giorno, ed è totalitaria. L’art. 2389 codice civile appare quindi inderogabile; l’abrogazione dell’art. 2630, che sanzionava penalmente gli amministratori che percepivano compensi in assenza di delibera assembleare non ha, secondo le sezioni unite della Cassazione, esautorato l’assemblea dei poteri attribuitile dall’art. 2389.
Alla luce di questa sentenza il fisco non dovrebbe poter sindacare l’ammontare dei compensi corrisposti agli amministratori. In questo senso si è infatti espressa anche la Cassazione con la sentenza 28595/2008.
La sentenza in oggetto, inoltre, vale come elemento di prova dell’eventuale gratuità del mandato di amministratore (che è normalmente a titolo oneroso, come previsto dall’art. 2389 codice civile) e comporta l’onere per il fisco di provare che è stato erogato un compenso all’amministratore, dal momento che il TUIR non prevede per i compensi agli amministratori una presunzione analoga a quella dell’art. 45 comma 2 per i capitali dati a mutuo e non possono nascere conseguenze fiscali da un atto nullo dal punto di vista civilistico.
Se tali compensi sono stati erogati in assenza di delibera assembleare, devono essere considerati come crediti nei confronti degli amministratori.